Antonio Gavazzi (1815 – 1885)

Bartolomeo Giuliano, Ritratto di Antonio Gavazzi, 1887

Antonio Gavazzi nasce a Valmadrera nel 1815, da Giuseppe Antonio e Luigia Verza, quartogenito di una delle dinastie imprenditoriali più in vista della Lombardia dell’età della Restaurazione. L’ascesa della famiglia, di modeste fortune, ebbe inizio nello scorcio finale del Settecento, allorquando Pietro Antonio, esattore delle imposte, intuendo le opportunità connesse al commercio serico, si impegnò decisamente nella nuova attività, prendendo in affitto una piccola filanda a Valmadrera. Una scelta continuata e ulteriormente sviluppata dal figlio Giuseppe Antonio, che nel periodo napoleonico era ormai divenuto uno dei maggiori produttori di seta della regione. Abile nel commercio ma soprattutto attento agli aspetti tecnici e organizzativi del lavoro (nel 1820 la filanda di Valmadrera fu una delle prime a usare il sistema di trattura a vapore; negli anni successivi promosse l’escavazione di ligniti e torbiere per sopperire alla carenza di combustibili), alla sua morte lasciò ai figli una ditta fiorente con filande e filatoi sparsi tra il Lecchese e la Brianza e importanti addentellati nel mondo bancario (la ditta Gavazzi Quinterio, una delle maggiori operanti sulla piazza di Milano, diede vita, tra l’altro, alla Società privilegiata dei battelli a vapore). Fu però Pietro (1803-1874), fratello di Antonio, l’artefice della definitiva consacrazione della famiglia nel gotha imprenditoriale lombardo. Un ruolo rafforzato con un’abile politica matrimoniale che avrebbe legato le sorti della famiglia a quelle di altri protagonisti dell’industria lombarda come i Badoni e i Dell’Orto.
Se questo era l’humus in cui crebbero i fratelli Gavazzi, Antonio non era però destinato a ricoprire ruoli di primo piano nella conduzione aziendale affidata alle capaci mani di Pietro, e da questi trasmessa ai figli. Antonio tuttavia condivise con i fratelli l’interesse per gli affari ed ebbe piena consapevolezza dell’importanza del fattore tecnico per lo sviluppo industriale. Membro del consiglio direttivo della milanese Società di incoraggiamento di arti e mestieri dal 1863 al 1869, ebbe a cuore lo sviluppo dell’istruzione professionale e del progresso tecnico in campo serico, come mostra la decisione di destinare alla stessa Società un lascito di 20.000 lire per l’istituzione di un premio quadriennale a favore di innovazioni nel campo della trattura e filatura della seta. Antonio svolse anche un’importante azione a sostegno dell’industria serica in qualità di promotore delle prime associazioni imprenditoriali.
Estremamente legato, come il resto della famiglia, a Valmedrera, il paese di origine, visse a Milano, abitando con i fratelli nella casa di via Palermo 2, in uno dei primi quartieri della “nuova Milano”.
Membro del Circolo dell’Unione, condivise con il suo ceto abitudini e gusti, come attestano frequentazioni e interessi. Tuttavia per quanto perfettamente inserito nella vita della metropoli milanese, il centro dei suoi interessi rimase Valmadrera, dove si spense il 22 agosto 1885 alle soglie dei settant’anni.
A sanzione di una vita tranquilla e, dato il rango del personaggio, tutto sommato appartata, la stampa milanese registrò l’evento con poche e parche parole, celebrando del “nestore degli industriali serici” un tratto che gli fu tipico, il paternalismo: “esso teneva aperti i suoi grandiosi stabilimenti serici al solo scopo di dar pane a migliaia di operai e operaie, giacché in questi anni l’esercizio di tali stabilimenti gli recarono sensibilissima perdita”.
Profondamente cattolico, come trapela anche dalle sue volontà testamentarie ebbe forte il senso della responsabilità dell’imprenditore nei confronti della comunità, convinto della necessità di stemperare le asprezze dell’industrialismo in una visione solidaristica delle gerarchie sociali. Accreditato dall’Ufficio delle imposte di un patrimonio di oltre 3 milioni e mezzo, Antonio Gavazzi dispose una serie di elargizioni a favore dei direttori degli stabilimenti di Valmadrera (10.000 lire), Merate (2000 lire), Esino (700 lire), Bellano (10.000 lire) e San Giovanni in Croce (5000 lire), senza dimenticare gli operai, a ciascuno dei quali destinò 20 lire, elargizione ridotta a sole 10 lire per le sue molte operaie.
Celibe e senza eredi diretti, legò una parte cospicua del proprio patrimonio a numerose istituzioni benefiche milanesi (tra queste la Congregazione di Carità, gli Asili di Carità, l’Ospedale Maggiore, il Comitato promotore per gli ospizi marini, i Riformatori per i giovani, il Pio Istituto per le figlie traviate, l’Istituto dei ciechi), distribuendo il resto fra i numerosi famigliari.

(da Il tesoro dei poveri, p. 246, testo di Giorgio Bigatti)