Giuseppe Calcaterra (1767 – 1856)

Felice De Maurizio, Ritratto di Giuseppe Calcaterra, 1857

Il 12 dicembre 1856, quando si spegneva a Milano, al n. 2377 di contrada Meravigli (oggi n. 6), in una bella casa presa in locazione dalla famiglia Prinetti, l’avvocato Giuseppe Calcaterra era molto vicino al compimento dei 90 anni: era infatti nato nella parrocchia di San Satiro, da Francesco e Giovanna Caprotti, il 6 gennaio 1767. E dire che più di un ventennio prima, precisamente nel lontano 1835, quando la Congregazione di Carità lo aveva nominato direttore del Pio Albergo Trivulzio, aveva rifiutato l’incarico a causa della salute cagionevole, che lo aveva portato poco dopo, nel 1836, a lasciare la professione che aveva esercitato a Milano con buon successo. Salute che lo aveva definitivamente abbandonato, con tutta probabilità, soltanto pochi mesi prima del trapasso: risulta, infatti, che fosse stato interdetto, con provvedimento 15 agosto 1856.
Con testamento 5 maggio 1853, depositato presso il notaio milanese Antonio Rossi, il Calcaterra, nominato esecutore testamentario l’amico Carlo Giuseppe Manzoni, lasciava erede universale l’Ospedale Maggiore di Milano e disponeva oltre trenta legati, sia in denaro che in oggetti, uno soltanto dei quali destinato a parenti, seppur lontani: 1.680 lire austriache alla figlia della sorella di sua cognata; vi è dunque da credere che a quel momento non ne avesse altri, e che fosse in specie premorto il fratello maggiore che per certo almeno aveva: si ha puntuale notizia, infatti, che i suoi meriti gli erano valsi la “preferenza del padre nelle disposizioni testamentarie”.
Il più consistente fra i legati stessi era proprio quello destinato al nostro ente: 80.000 lire austriache, a favore del Luogo pio di Loreto, volendo, come si può leggere nel testamento che la rendita annua “ritraibile dalla somma stessa possa essere a preferenza convertita in favore di persone povere vergognose di civile condizione, abitanti in Milano, anche in via di soccorsi straordinari”.
Ma, a riprova della sua particolare attenzione ai sofferenti che, fra l’altro, gli era valsa la nomina, seppur rifiutata, cui si è accennato, si deve ricordare che il secondo legato per importanza era quello a favore dell’Ospedale Fatebenesorelle di Milano, 50.000 lire austriache; e che un altro onere imposto all’erede allo stesso titolo era quello del mantenimento, in perpetuo, di due letti nell’ospedale di Cassano d’Adda, “a pro infermi di detto comune”.
A Cassano il Calcaterra risulta che fosse particolarmente affezionato; aveva infatti preso casa in locazione da Luigi Pecchio, e vi trascorreva i periodi di ferie e di riposo, come è anche provato dall’inventario degli ottanta libri lì detenuti, di svago e di cultura varia, ma non giuridici. E aveva anche un pezzo di terra, una novantina di pertiche, detto “la Signa della Casolta”, ovvero anche “Campo lungo”, ereditato dal padre, che risulta anche essere l’unico bene immobile di cui era pienamente titolare, accanto a due diretti domini, l’uno, una casa in comune di Cocquio, distretto di Gavirate, provincia di Como, con annessa terra arativa; l’altro, un sedime di una casa colonica con chiesa e orti, che non è precisato dove si trovasse. Oltre, infatti, al legato relativo all’ospedale del paese, venivano beneficiati il parroco di Cassano, con il lascito di tutti gli oggetti – preziosi esclusi – contenuti nella casa stessa; ancora, il medesimo, con 100 lire annue in perpetuo per costituire due doti da 50 ciascuna; i poveri della parrocchia stessa, con 500 lire; nonché, con 144 lire, il custode dell’appartamento locato.
E sempre riferito a Cassano d’Adda era anche il legato, forse, più particolare: l’istituzione di una “cappelleria mercenaria con obbligo al cappellano” e l’onere di celebrare ogni giorno una messa nella chiesa del paese “per beneficio di quella popolazione e suffragio dell’anima mia”. Come dote, veniva assegnato il pezzo di terra di cui si è detto; il patronato attivo veniva conferito al parroco pro tempore di Cassano, che, dunque, avrebbe provveduto alla riscossione dei fitti e dei frutti e al pagamento dei carichi e che, soprattutto, era titolare del diritto di nomina del cappellano stesso; quest’ultimo, infine, nel giorno anniversario della morte del benefattore, avrebbe dovuto dare 40 lire al parroco, perché le distribuisse ai poveri.
Alla sfera della carità e pietà cristiana si deve ricondurre anche il consistente legato di 2.400 lire a favore del Santuario di Santa Maria presso San Celso; il denaro destinato alla celebrazione di ben 300 messe a suffragio della sua anima, a tre lire ciascuna, disposto contestualmente al desiderio che i funerali, celebrati nella chiesa di Santa Maria Segreta, si svolgessero “senza pompe”; nonché la somma di 500 lire per i poveri della parrocchia di ultima residenza.
Tutti gli altri legati erano finalizzati a beneficiare il personale di servizio, gli amici, i collaboratori. Quanto ai primi, nell’elenco figurano accanto alla cameriera – 5.000 lire, più 550 lire vita naturale durante in rate trimestrali anticipate, oltre al letto e alla biancheria e altri oggetti vari – altri domestici, tutti con un importo una tantum e una rendita perpetua, nonché il cocchiere, lo stalliere, la lavandaia “da colore”, per finire con il già ricordato custode della casa di Cassano e la portinaia di quella di Milano. Fra i secondi, figurano il suo parrucchiere, un negoziante e diversi colleghi e amici, ai quali, se si esclude il legato di credito di 1.200 lire a favore dell’avvocato Luigi Martani e le 3.000 lire alla signora Luigia Calvi vedova Cattaneo, per lo più lasciava oggetti particolari: il calamaio d’argento, la pendola, una spilla d’oro con diamanti, la “Raccolta degli economisti classici italiani” e quella delle “Opere classiche italiane”, – rispettivamente, a Battista e Girolamo, nobili fratelli Calvi – sino al servizio da tavola d’argento, destinato, significativamente, al presidente dell’Imperiale Regio Tribunale d’appello di Milano. Quanto, infine, ai collaboratori, venivano beneficiati con piccoli o consistenti importi, a seconda dello “incomodo” sopportato, sino a ben 15.000 lire a chi aveva seguito “l’andamento e la direzione” dei suoi affari.
Pare utile, infine, ricordare la precisazione con la quale si chiudeva il testamento: tutti i legati inferiori alle 15.000 lire avrebbero dovuto essere onorati entro tre mesi e ”in pezzi d’argento da venti cantarani al corso legale di una lira austriaca cadauno, esclusi gli spezzati ed esclusa qualsiasi carta monetata, viglietti o buoni di qualunque specie e in genere qualunque surrogato al denaro metallico”.
Onorati tutti i legati e sottratte le poco numerose e scarsamente consistenti passività, trattandosi, praticamente, soltanto del pagamento di qualche fornitore e del personale di servizio per le mensilità in corso, l’ammontare netto lucrato dall’erede, l’Ospedale Maggiore di Milano, risulta essere stato pari a 162.914 lire.
Detto degli immobili, e tralasciando del denaro, dei preziosi, dei mobili e della biancheria, sino al cavallo e alla carrozza, cose tutte che testimoniano un alto tenore di vita, si può aggiungere che ai libri della casa di Milano, in numero di 776 e per lo più giuridici, l’inventario, compilato in data 29 agosto 1856, assegnava un valore di perizia di oltre 2.600 lire. Ma in particolare occorre evidenziare che alla voce “attività” la parte del leone era rappresentata dai crediti, sia verso lo stato o altri enti pubblici, come, ad esempio, il comune di Desio, sia, e soprattutto, verso privati. Se l’investire in titoli del debito pubblico era, come è noto, una forma usuale di impiego dei propri risparmi, altrettanto, come è evidente, non si può dire per il mutuare denaro ai privati. Ora, a quest’ultimo proposito, pare di poter affermare che per il Calcaterra fosse un’attività di un certo spessore, sia per le somme mutuate che per la qualità dei mutuatari: un esempio, per tutti, quello del Conte Archinto.
Alla luce di questa ultima considerazione, si capisce bene perché l’Ospedale Maggiore proponesse di pagare il nostro ente mano a mano che venissero a scadenza i crediti più consistenti, riconoscendo nel contempo l’interesse del 4,75%, o alternativamente, e sempre a causa delle condizioni di cassa che non permettevano “di soddisfare in effettivo denaro contante il legato”, la cessione di “uno o più” degli stessi. In concreto, la cosa si sarebbe risolta con una compensazione, a principio del 1860, quando, con due atti contestuali datati 4 gennaio, rogati dal notaio Cesare Chiodi, i Luoghi Pii rilasciavano quietanza a favore dell’Ospedale Maggiore per 28.000 fiorini a saldo del legato Calcaterra e quest’ultimo ne emetteva una, a favore del nostro ente, per 35.000 fiorini, a saldo del legato Mellerio, per il quale erano venuti a scadenza i dodici anni, e che ammontava in origine a 110.000 lire austriache.
Resta da dire, da ultimo, che almeno uno di questi crediti si sarebbe dimostrato di complessa e travagliata esazione: un corposo incartamento legale ripercorre la lunga vicenda del credito assistito da ipoteca verso Pietro Pagani, sino alla vendita degli stabili e alla procedura concorsuale.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 200-202, testo di Alberto Liva)