Giuseppe Castelli (1755 – 1824)

Carlo Picozzi, Ritratto di Giuseppe Castelli, 1839

Il marchese Giuseppe Maria Cipriano Reina Castelli (con questo doppio cognome generalmente compare nei documenti) nacque il 16 agosto 1755, probabilmente a Milano, da Francesco Castelli e Lucia Moja. Il nonno, marchese Paolo Gerolamo, aveva acquistato nel 1713, dalla famiglia Manriquez de Mendocia, il feudo di Seregno, tramandandone la proprietà – e dunque il titolo – al figlio primogenito Francesco, padre di Giuseppe.
Membro dunque di una ricca famiglia della nobiltà milanese (con ogni probabilità un ramo collaterale dei Castelli di Menaggio), Giuseppe Castelli fu in età napoleonica consigliere comunale di Milano (1802-1812) e membro della Congregazione di Carità. Nel novembre 1814, inoltre, fu tra i candidati alla carica di podestà, conferita poi al conte Cesare Giulini.
Da una dichiarazione rilasciata nel 1801, egli risultava proprietario, nel Dipartimento d’Olona, di numerosi scudi d’estimo in Milano, nei circondari della città, a Seregno e ad Orsenigo nel Comasco. La dimora dei Castelli a Seregno, già antico maniero dei nobili Medici ed Arcimboldi, fu poi acquisita rispettivamente dalle famiglie Abbiati e Mariani. Ad Orsenigo, invece, i Castelli avevano acquistato, nel corso del Settecento, i beni dei conti Casati ed erano proprietari, tra l’altro, di una villa confinante con la parrocchia, ancora oggi esistente, ceduta in seguito dagli eredi Carcano alla famiglia Baragiola.
Alla parrocchia di S. Martino in Orsenigo Castelli fu molto legato: nel 1809, infatti, in qualità di fabbriciere della chiesa e con il concorso finanziario di don Michele D’Adda, fece ricostruire ed ampliare la casa colonica attigua alla parrocchiale, mentre nel 1823 destinò una somma non indifferente all’ampliamento della chiesa stessa, i cui lavori furono portati a termine dieci anni dopo grazie all’interessamento dell’esecutore testamentario, l’avvocato Giambattista Orleri. Una lapide all’interno della chiesa ricorda ancora il gesto benefico.
A Seregno la memoria di Castelli è invece legata, tra l’altro, ad una vertenza insorta tra il 1789 e il 1791 con la popolazione locale per la chiusura di un’insalubre fossa esistente nel centro dell’abitato ed utilizzata come lavatoio e come abbeveratoio del bestiame: d’accordo con il medico locale, infatti, egli si offrì di pagare tutte le spese della copertura, facendo pressioni perché si iniziassero i lavori al più presto; le reazioni dei seregnesi furono violente, tanto che nel 1790 alcune proprietà dell’agente del marchese, Carlo Giuseppe Silva, furono date alle fiamme, mentre l’anno successivo si ebbe addirittura un tumulto popolare. La fossa venne chiusa definitivamente soltanto nel 1826, dopo la morte di Castelli.
Il marchese morì infatti il 7 giugno 1824, all’età di 69 anni, nella propria casa milanese in contrada Borgo Nuovo, all’antico n. 1524 (oggi n. 16), nella parrocchia di S. Marco. Non avendo eredi diretti, con testamento 20 aprile 1819 nominò la moglie, marchesa Camilla d’Incisa, usufruttuaria delle sue sostanze fino alla morte e coeredi i pronipoti Francesco (1804-1881), Giuseppa Marianna (nata nel 1801, sposatasi con il nobile Luigi Fontana), Antonia Francesca (1803-1829) e Camillo (1806-1850, patriota, sposatosi con Giulia Bertoglio), figli di Pietro Carcano e della nipote del testatore, Maria Ester Castelli; i Carcano entrarono in possesso dell’eredità nel maggio 1832, alla morte di Camilla d’Incisa.
Castelli volle inoltre che la sua casa in via S. Vittore e 40 Martiri, all’antico n. 1195 (oggi via Pietro Verri n. 16), venisse livellata, erogando poi con il ricavato un reddito annuo da destinare in parte all’istruzione catechistica dei poveri di Milano (tale somma, per dispaccio governativo 18 marzo 1825, fu poi assegnata alle Pie Case d’Industria per l’istruzione catechistica di quei ricoverati), in parte a favore dell’Oratorio annesso alla casa stessa, eretto dal defunto sacerdote Michele D’Adda e da tempo frequentato da una “pia unione di giovani per le sacre funzioni e cristiana istruzione” e in parte, infine, ai poveri di Orsenigo, perché fossero provvisti, in particolare, di medicinali; amministratore del lascito, a tale scopo, fu nominato il parroco per tempo del luogo.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 342-343, testo di Paola Zocchi)