Vincenzo Nasoni (1830 circa – 1886)

Camillo Rapetti, Ritratto di Vincenzo Nasoni,1888

Il 20 febbraio 1886 si spegneva a Milano nella sua bella casa di via Torino 62 Vincenzo Nasoni, di condizione possidente. Aveva da poco compiuto 56 anni. A parte l’annuncio dei funerali apparso sulla “Perseveranza”, la stampa cittadina non diede rilievo alla notizia della sua morte. Del resto, malgrado l’entità del patrimonio potesse far pensare al contrario, Vincenzo Nasoni aveva condotto una vita appartata. Estraneo a quella vita di società che costituiva uno dei connotati tipici della Milano ottocentesca, a differenza del cugino Domenico per alcuni anni rappresentante del circondario esterno (così dopo il 1873 si chiamava il territorio di quelli che un tempo erano stati i Corpi Santi) in consiglio comunale, non risulta neppure che avesse ricoperto cariche pubbliche di rilievo, al di fuori di quella di consigliere della Congregazione del Seveso. Ma questa assenza di notorietà pubblica non deve far pensare a una vita oscura. Vincenzo Nasoni era stato un esponente di spicco dell’élite economica milanese del primo ventennio postunitario, almeno a giudicare dall’ingente patrimonio, al momento della sua morte valutato dall’Ufficio delle imposte a oltre un milione e mezzo di lire.
Negoziante di granaglie, con recapito in piazza Mercanti, nel salone degli Uffici, insieme al fratello Antonio (morto nel 1872) aveva proseguito le attività della ditta paterna, affiancando al commercio un’attività di tipo imprenditoriale. I due fratelli Nasoni erano, infatti, proprietari di due mulini “ad uso pila riso” nei Corpi Santi di Porta Ticinese, uno a “tre rodigini” al Gentilino e l’altro, detto di Morivione, non lontano dal precedente. Ma questo non esauriva lo spettro delle loro attività, risultando i due fratelli intestatari anche di una conceria di pellami, posta sempre nei Corpi Santi di Porta Ticinese.
Uomo concreto e pago del benessere raggiunto, come suggeriva la qualifica di possidente di cui amava fregiarsi, all’atto di nominare la moglie Savina Alfieri sua erede universale (i due non avevano infatti discendenti diretti) Vincenzo Nasoni aveva istituito una serie di legati benefici. Uno di questi, per una cifra di 2400 lire di rendita dello stato, era stato assegnato alla Congregazione di Carità. Il testatore aveva avuto cura di definire minuziosamente i criteri a cui avrebbe dovuto attenersi la Congregazione nella gestione del lascito, ripartito in parti eguali a favore dei “miserabili e infermi”, delle fanciulle povere senza dote e degli asili di carità.
Interessanti soprattutto i requisiti preferenziali per l’assegnazione del beneficio destinato ai poveri delle parrocchie di San Gottardo, della Madonna del Naviglio, della Barona e di San Rocco, e più in particolare a quanti fra questi avessero esercitato la professione di pilatori di riso, facchini e conciatori. Dietro quelle che a una lettura superficiale possono apparire clausole testamentarie abbastanza consuete nel caso di lasciti, è possibile intravedere in filigrana il riflesso della fase di transizione vissuta da una città avviata a “perdere del tutto la sua peculiare fisionomia per mescersi e confondersi nella tinta uniforme delle mille città del mondo moderno”. Nasoni stesso, del resto, nella sua doppia veste di negoziante e imprenditore ben rappresentava la parabola di una modernizzazione vissuta dalla classe dirigente milanese con piena consapevolezza e insieme con timore per la perdita di quella rete di solidarietà che innervava i rapporti sociali nella città preindustriale, e a cui si cercava un corrispettivo in interventi che oscillavano tra il paternalismo imprenditoriale e gli ideali del mutuo soccorso. Di tutto questo vi è certamente un’eco nella decisione di destinare una piccola parte dei propri capitali a sollievo non genericamente dei poveri ma solo di quelli che avevano lavorato per Nasoni stesso o almeno nello stesso ambito produttivo. Ma vi è di più. Dal testamento emerge un altro elemento di un certo interesse. Il baricentro delle fortune della famiglia Nasoni era saldamente ancorato nel periferico borgo di San Gottardo, “una città differente, tutta di commercio”, a detta di Cesare Cantù. Come la maggior parte dei Corpi Santi lo sviluppo del borgo, strettamente legato alla presenza dell’acqua e dei navigli, dipendeva dal “solo e semplice fatto di essere rimasta fuori dalla cerchia daziaria; cioè d’aver avuto in sorte, oltre al contatto d’una capitale, un grado di agevolezza nei viveri e di libero traffico che Milano non aveva. Il suburbio era il porto franco della città. Era congiunto alla libera campagna come un porto franco è congiunto al libero mare”. Se le parole di Cattaneo sottolineano soprattutto le ragioni economiche dell’autonomia amministrativa dei Corpi Santi, il testamento di Vincenzo Nasoni ci mostra quanto fosse forte il sentimento di appartenenza al proprio quartiere e alla parrocchia. A dieci anni dalla contrastata aggregazione del comune dei Corpi Santi, Nasoni, che pure viveva all’interno della città murata in virtù della posizione economica conseguita, non aveva dimenticato le sue origini “corpisantine” come tradisce la puntuale elencazione delle parrocchie a cui devolvere le elemosine destinate a perpetuarne la memoria.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 248-249, testo di Giorgio Bigatti)