Alessandro Frisiani (1584 circa – 1662)

Pittore lombardo, Ritratto di Alessandro Frisiani, terzo quarto del XVII secolo

Con testamento 26 marzo 1662, il rev. Alessandro Frisiani nominava la Scuola dei Poveri Infermi erede delle proprie sostanze, con il legato di 100 lire annue per dote di una ragazza nubile e di buona fama della famiglia Frisiani o, in difetto, della parrocchia di San Simpliciano, e con l’indicazione di vendere i mobili e di conservare ed affittare gl’immobili a proprio beneficio: un’eredità che, per la perdita della coeva contabilità del Luogo pio, non è possibile quantificare con precisione, ma che comunque non doveva comprendere molto oltre alle due case poste nei pressi di San Simpliciano, una in Contrada del Passetto (attuale Via Garibaldi n. 44) e l’altra in Contrada del Guasto (Via Anfiteatro n. 14), valutate nel 1764 rispettivamente 3.100 e 4.000 lire.

Alessandro Frisiani appartiene ad una storica famiglia milanese, presente già nel ’200, che nel ’400 risulta ben radicata nell’area nord della città e sue adiacenze, con una residenza in Porta Nuova (parrocchia di S. Bartolomeo), un sepolcro in Santa Maria Incoronata e – soprattutto – con un complesso agricolo a cascina nei pressi di Niguarda (dove nel 1932-33 sorgerà l’ospedale) chiamato “La Frisiana” dal nome stesso della famiglia. Dai figli di Giovanni, abitante nel 1479 alla Frisiana, ebbero origine due distinti rami: quello che qui interessa, discendente da Beltrame, ebbe il possesso avito della Frisiana: nel 1530 Francesco, avo del nostro benefattore, vi possedeva ben 500 pertiche di terreno (circa 33 ha), che decise di porre a fedecommesso, vincolando così i discendenti a conservare integra la proprietà nell’intento di assicurare loro, more nobilium, una costante fonte di reddito. Le cose però andarono diversamente, se già nel 1569 la terra posseduta dai quattro figli di Francesco era scesa a 300 pertiche, in una situazione tendente alla povertà, senza servi in casa e con uno scarso vitto. Nel 1593 i due fratelli superstiti, Giovanni e Antonio Maria, si divisero questi beni. Giova a questo punto osservare che, sempre nell’ultimo quarto del ‘500, l’altro grande ramo dei Frisiani stava invece ottenendo, con Gottardo, una netta affermazione economico-sociale.

Alessandro è appunto figlio di Antonio Maria, residente nel 1581 in parrocchia di San Satiro, e della sua prima moglie, il cui nome non ci è noto (si risposò poi con Violante Giussani): stando alla scritta sul ritratto, la nascita avvenne tra il maggio 1584 e il marzo 1585; la madre dovette morire ben presto, entro il 1590, com’è calcolabile dalla data d’ingresso in religione del fratellastro, nato dal secondo matrimonio del padre. Va subito detto che la sua vita fu segnata da vari passaggi di stato – da laico, a religioso, ad ecclesiastico – dovuti in parte a probanti vicissitudini e forse anche ad una personalità inquieta (si pensi, ad es., ai suoi sei testamenti, tre dei quali nel giro di nove giorni!).

Il primo documento su di lui è una pace ottenuta nel 1608 da un abitante di Niguarda che egli aveva ingiuriato e percosso in compagnia di altri giovani. In questo periodo, 1605-1610, deve collocarsi il suo matrimonio con Laura Carati: da questa infatti ebbe due figlie, Rosanna e Cecilia, che risultano ancora minorenni in un atto del 1620. È probabile che la moglie morisse assai presto, forse anche prima del settembre 1610, quando egli risulta abitare con il padre e i fratelli in Porta Nuova (parrocchia dei SS. Cosma Damiano).

Tale evento non sarà senza conseguenze per il nostro, che – seguendo il fratellastro Gian Francesco, entrato nel 1612 negli Agostiniani di Santa Maria Incoronata – decise a sua volta nel 1617 di prendere i voti nello stesso convento, non senza aver prima provveduto ad accordi con il padre, onde ottenere per sé una pensione di 120 lire l’anno e una futura dote per le figlie, oltre alla disponibilità di vari mobili e suppellettili (tra cui una cardenza lavorata): il 21 febbraio Alessandro fece professione religiosa in quel convento – presso il quale era la tomba di famiglia – assumendo il nome di fra’ Gian Agostino da Milano. Poco dopo, l’11 marzo, ricevette anche la prima tonsura: tuttavia, mancando di questo altre tracce nei registri arcivescovili, avrà poi dovuto completare la sua formazione sacerdotale fuori diocesi, cosa del resto spiegabile con un trasferimento temporaneo ad altro convento o anche con qualche difficoltà derivante dal suo status di ex-coniugato con prole.

A turbare la sua quiete monastica giunse però la perdita delle figlie nel 1627-28 circa e, con la peste del 1630, quella del già ricordato fratellastro e – soprattutto – del fratello Antonio, notaio pubblico dal 1618 (apostolico dal 1615): questi alla morte del padre, nel 1620, aveva assunto la guida della famiglia e rilevato la casa di Porta Nuova ed anche la Frisiana, dove nel 1622 aveva ordinato lavori di risanamento ai tetti e ai muri. Svanite quindi le possibilità di sostenere e incrementare il rango della famiglia legate alla professione di Antonio, Alessandro, unico sopravvissuto, per poter ereditare i beni paterni – e in primo luogo la Frisiana – ottenne nel 1632 di lasciare l’ordine: cosa che fece non senza rammarico, visto che, nel testamento del 1650, disponeva di donare ai padri dell’Incoronata tutti i suoi abiti da frate. Quest’ultima parte della vita del Frisiani è quindi sotto una duplice veste: di sacerdote e di amministratore di beni. Come prete secolare, il suo trasferimento in San Simpliciano pare dovuto al fatto che il convento dell’Incoronata rientrava appunto in questa parrocchia: qui, probabilmente, si limitò alla celebrazione di messe nella cappella della Beata Vergine del Soccorso, a cui poi per testamento legherà i suoi abiti ed ornamenti da sacerdote.

Ben più complessa era invece la situazione sul versante famigliare: i suoi tre cugini, figli dello zio Giovanni, erano in condizione di povertà endemica, tanto da chiedere per ben 14 volte, tra 1608 e 1663, la deroga al fedecommesso per vendere terre alla Frisiana; i suoi stessi padre e fratello avevano lasciato alquanti debiti, mentre anche una sorella, sposata al notaio Balbiano, aveva parte nell’amministrazione. Perciò il nostro si risolse, nel 1634-35, a vendere tutti i suoi beni, ossia la sua parte di Frisiana, 120 pertiche di terreni “male all’ordine et rovinati” anche per le tempeste del 1626-27, chiedendo licenza al Senato e accordandosi con la sorella.

Tuttavia, forse per effetto di azioni legali e di una costante applicazione, nel giro di un decennio la situazione sembra migliorata al punto che, annullato il precedente accordo di vendita, nel 1647 don Alessandro prendeva solenne possesso delle sue 136 pertiche alla Frisiana, comprendenti una casa da massaro, un’altra parte da nobile e parte da pigionante e terreni posti perlopiù a vigneto: si pensi che nel 1652 provvide a rifornire un’osteria con 31,5 brente – 2380 litri – di vino. Nel 1657 la proprietà era affidata a nuovi mezzadri: i patti, molto dettagliati, prevedevano l’incremento e la cura delle viti ed il trasporto di prodotti e legname alla casa del padrone in Milano.

Negli anni ’50 si assiste anche ad un maggior radicamento del nostro nel quartiere di San Simpliciano, con l’acquisto di una prima casa in Contrada Passetto nel 1654, nel cui giardino egli collocò gelsomini in vaso e altri fiori da bulbo: ed è significativo che il testamento del 1650 fosse già concepito in favore del locale Luogo pio, seppure in forme diverse rispetto al 1662. Nella seconda casa, in cui si trasferì circa il 1661, don Frisiani morì il 1° aprile 1662, per febbre acuta e pleurite, all’età di 77 anni, nonostante le cure mediche ricordate nel testamento.

Alla sua morte il fedecommesso della Frisiana, in mancanza di discendenza diretta, passò a quella dei già nominati cugini e seguì la decadenza di questi fino alla vendita completa, avvenuta circa nel 1672: si pensi che una testimonianza del 1662 li descrive in una posizione sociale ormai incompatibile con il decoro della famiglia, “che non ardiscono né ancho d’andar a Messa […] per non haver vestiti [adatti]”! (forse per questo nei due testamenti del gennaio 1660 – salvo poi ricredersi – il nostro li favoriva maggiormente, ed esortava un cugino a cooperare con il giovane nipote orfano, e ad accoglierlo in casa “ut cum honore ac utilitate crescere vivereque possit”). Di segno opposto, invece, il destino delle case lasciate al Luogo pio, che furono da questo ben tesaurizzate: addirittura quella del Passetto, per la sua comoda posizione, utilizzata come sala capitolare ed archivio; lo stesso legato delle doti fu inoltre rispettato alla lettera, e si ha notizia di una Frisiani beneficiata delle 100 lire ancora nel 1767.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 133-135, testo di Piero Rizzi Bianchi)