Giovanni Battista Agudio (1822 – 1902)

Arturo Ferrari, Ritratto di Giovanni Battista Agudio, 1902
Alessandro Laforet, Monumento a Giovanni Battista Agudio, 1903

Nato a Milano il 28 aprile 1822, da Giuseppe e da Giulia Rusca, Giovanni Battista Agudio condusse una vita appartata, con poche emozioni, amministrando i beni di famiglia. In una breve nota autobiografica stesa nel 1861 a giustificazione della richiesta di essere esentato dall’arruolamento nella Guardia nazionale, lamentava di essere stato soggetto “fin dalla sua prima gioventù a gravi crisi nervose, che sensibilmente alterarono il suo fisico, non avendo mai potuto sradicare una lenta, ma non meno tormentosa infiammazione alla spina dorsale”. Sta forse in questa “gracilità di temperamento” la causa della rinuncia a portare a termine gli studi a cui si era avviato nel 1840 dopo una brillante carriera scolastica. Iscritto al corso politico legale dell’università di Pavia si era avvalso della facoltà di frequentare privatamente a Milano gli studi presso maestri abilitati superando alcuni esami (diritto romano, diritto ecclesiastico, statistica generale) senza però riuscire a portare a termine gli studi.
La sua era una famiglia di recenti ma solide fortune accumulate mediante una oculata gestione patrimoniale, testimoniata da una lunga successione di atti di acquisto di terre nell’alta Brianza, appezzamenti “aratorii, vitati e moronati”. È la grande espansione della seta a consentire il rapido arricchimento degli Agudio, presto in affari con la Felice Petracchi e C., una delle più accreditate ditte di banca a seta attive sulla piazza milanese, a cui probabilmente veniva ceduta la seta greggia nella filanda di Malgrate per la successiva commercializzazione. Un’attività quella serica che rimase però strettamente complementare a quella agricola, come attestano le dimensioni modeste della filanda di Malgrate, “12 fornelli non a vapore e quindi 24 filere”, con solo 54 lavoranti “tutte donne e ragazzi di otto in dieci anni”, come si legge in una notifica del 1851.
E forse proprio per questo essere così legato alla terra della seta, all’ingegner Giuseppe Agudio, padre di Giovanni Battista, interessava battere nuove strade. Come altri ingegneri della generazione formatasi negli anni della Restaurazione, avvertendo gli echi del nascente industrialismo, fu attento verso tutto ciò che sapeva di nuovo e insieme attratto dalle possibilità di trasformare le applicazioni della scienza in oggetti di commercio. Per questo si fece tentare da numerosi affari, non tutti fortunati. Interessato nella Società anonima dei combustibili fossili, fu azionista e talvolta con responsabilità importanti in numerose società (Compagnia lombarda di assicurazioni marittime De Lucchi e Rubattini, Società anonima per la costruzione della strada ferrata meridionale elvetica, Società per la birra) e in particolare, sovrastimandone le potenzialità economiche, nell’impresa della navigazione a vapore sui laghi lombardi (Società privilegiata degli I.R. piroscafi per la navigazione del Verbano, Lario e Benaco; Società lariana di navigazione a vapore sul lago di Como).
Al grande attivismo non corrispose nell’ingegner Agudio un ugual fiuto commerciale, ingrediente indispensabile per fare fortuna in un’età dove molte delle strade tentate non erano destinate al successo. Per questo, alla morte del padre, Giovanni Battista fu costretto a far fronte a una situazione forse inattesa, certo sgradevole: un considerevole indebitamento. Ed ecco la cessione ai Gavazzi delle torbiere di Bosisio per 50.000 lire e la vendita della possessione detta di Prebone, vicino a Monticelli Brianza, di 621 pertiche ad Adolfo Bauer per 100.000 lire in gran parte devolute al pagamento dei debiti lasciati dalle sfortunate speculazioni paterne.
Memore di questa esperienza, Giovanni Battista da quel momento si tenne lontano dagli affari, limitandosi ad amministrare i residui beni di famiglia, alternando i soggiorni in città a quelli nella villa di famiglia a Malgrate, dove seguiva l’amministrazione della tenuta e regolava i conti con i coloni.
Uomo schivo e di parche amicizie, curioso dell’arte (a partire dal 1859 fu socio della Società per le Belle Arti), a differenza del padre non provò nessun interesse per la scienza, in questo fedele alla formazione classica e storico-giuridica che aveva ricevuto in gioventù. Possedeva infatti una raccolta di libri non grande ma di qualità, in cui oltre a Petrarca e Tasso, troviamo testi classici del pensiero politico come Macchiavelli e Guicciardini, la Cronica del Villani e gli scritti giuridici di Filangeri, le storie di Sismondi, Botta, Colletta, alcuni dizionari. Gli si conosce una sola passione, quella per i cavalli, attestataci dall’iscrizione, sempre rinnovata, alla Società per le corse di cavalli in Lombardia.
Sentendo avanzare l’età, al compimento dei settanta anni decise di fare testamento: celibe e senza discendenti, “mercè l’aiuto dell’altissimo” volle lasciare ai poveri tutte le sue sostanze, nominando la Congregazione di Carità sua erede universale. Come la cugina Maddalena Agudio, destinò i quadri di famiglia e un anello di brillanti ad Amalia Steffanoni, figlia naturale del cugino.
Alla sua morte, 3 aprile 1902, il patrimonio, tolti pochi legati, passò alla Congregazione: nel complesso tra beni immobili (tra cui la villa di Malgrate), crediti e titoli del debito pubblico si trattava di un controvalore di 261.368 lire.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 262-264, testo di Giorgio Bigatti)