Collegio delle Nobili Vedove (1628 – 1963)

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L’11 aprile 1620, il cardinale Federico Borromeo concedeva a Cornelia Lampugnani (1583 – 1620), vedova di Francesco Rho, di essere ammessa nella Congregazione delle vergini di Porta Tosa, nata nel 1618 per dare ospitalità a giovani donne intenzionate a prendere i voti. In pochi mesi, Cornelia Lampugnani maturò l’idea di costituire una comunità specificamente preposta all’accoglienza di nobili vedove da subordinare al patrocinio degli Oblati di San Sepolcro, ai quali era da tempo legata.
Cornelia Lampugnani morì brevissimo tempo dopo il suo ingresso nella Congregazione delle vergini (luglio 1620) e ancora per qualche anno, quando la comunità fu trasferita in una nuova sede in contrada della Mezzetta (Porta Orientale), le giovani nubili e le vedove continuarono a convivere. Intorno al 1622 l’arcivescovo Federico Borromeo, assecondando l’antico auspicio della Lampugnani, aveva perfino deliberato l’istituzione di un “Collegio pio e religioso nel quale Vidue matro[n]e e Verg[ini] Zittelle possano ridursi per servir alla Divina Maestà”, sotto il titolo della “Beata Vergine presentata nel tempio e di S. Filippo Confessore”.
Sebbene i due gruppi condividessero solo alcuni momenti e spazi comuni, in entrambi era spiccata l’esigenza di una più netta distinzione: nel 1628 le vedove si trasferirono finalmente in contrada dell’Angelo (Porta Nuova), dove la loro aggregazione venne ufficialmente fondata sotto l’invocazione della “Presentazione della Santissima Vergine Maria”, il 18 giugno 1631. Sei anni più tardi il cardinale Cesare Monti l’approvava in via definitiva, dotandola di regole proprie.
Per ottenere l’ammissione al collegio, sempre soggetta all’assenso dei protettori dell’istituto e delle ospiti permanenti, le vedove dovevano avere più di trent’anni ed essere di condizione nobile “o almeno di honesto stato e conditione”. La loro permanenza poteva avere carattere definitivo o temporaneo: nel primo caso le ospiti erano tenute a versare una dote di almeno 4.000 lire, nel secondo era invece previsto il pagamento di una pensione mensile.
Il gruppo era guidato da una superiora, cui spettava la direzione della casa, supportata da una vicaria e da due “discrete”, alle quali era affidato il compito di “correggere le sorelle et amonirle caritatevolmente conforme al bisogno” e invitarle al rispetto degli ordini. Alla “portinara” era invece assegnata la custodia di una delle due chiavi dell’ingresso al collegio, mentre l’altra rimaneva nelle mani della superiora. L’accesso all’istituto era infatti severamente controllato, tanto che nessuno poteva entrare o uscire dalla casa senza apposito permesso. Altrettanto rigorosa era l’organizzazione della vita al suo interno, con l’alternarsi di momenti di preghiera e lavori manuali.
All’arcivescovo era riservata la nomina di otto deputati – quattro laici e quattro religiosi – che dovevano sbrigare gli affari temporali per conto della congregazione. Fra questi, a rotazione, veniva scelto il priore, mentre il tesoriere veniva eletto preferibilmente tra gli ecclesiastici.

A differenza di altre istituzioni consimili, il Collegio delle nobili vedove non venne compreso nelle riforme giuseppine e continuò a vivere autonomamente fino a quando, nel 1810, la Congregazione di Carità napoleonica ne avocò a sé l’amministrazione. Dopo lo scioglimento di quest’ultima nel 1825, il collegio passò in gestione a un unico “Amministratore e Direttore gratuito”, che agiva con l’aiuto degli impiegati dell’Amministrazione del Pio Albergo Trivulzio e degli Orfanotrofi.

Dopo la morte dell’ultimo amministratore-direttore, la responsabilità dell’ente fu affidata alla Congregazione di Carità (1870). “Siccome però il Collegio o Convitto in fatto aveva cessato di esistere fino dal 1865, all’epoca cioè che il relativo locale venne acquistato dal Municipio per l’aprimento della Via Montebello” , nel 1872 la Congregazione fece approvare il nuovo statuto e l’erezione in ente morale sotto il nome di “Opera pia Vedove Nobili e Civili”, sostituendo all’esperienza di vita comunitaria l’assegnazione di un sussidio in denaro, destinato a vedove con più di quarant’anni, originarie di Milano o che potessero almeno vantare una residenza decennale in città. La chiesa nel frattempo era passata all’Istituto dei Ciechi che aveva trasferito la propria sede in quella zona nel 1855.
Dopo lo scioglimento della Congregazione di Carità, la gestione dell’Opera pia passò all’Ente Comunale di Assistenza, che ne assorbì anche il patrimonio residuo quando essa fu definitivamente soppressa nel 1963.

(da Guida dell’Archivio dei Luoghi Pii Elemosinieri di Milano, pp. 333-336)