Ippolita Bossi Rozzoni (defunta nel 1563)

Agostino Santagostino, Ritratto di Ippolita Bossi Rozzoni, 1679

Ippolita Bossi, rampolla di una prestigiosa casata dell’aristocrazia milanese, era figlia di Federico Antonio Bossi e di Costanza di Dionisio Alciati, già sposata in prime nozze con Cristoforo Alciati, morto nel 1505.
Il padre – figlio a sua volta di Giovanni Luigi Bossi, già consigliere sforzesco, morto nel 1482 – fu un militare, attivo, fra l’altro, al tempo delle guerre d’Italia. Egli collaborò infatti con la prima dominazione francese (1499-1512), ma al momento opportuno seppe poi schierarsi per la causa sforzesca, tanto da ricevere da Massimiliano I Sforza (1512-1515) la carica di comandante delle genti ducali con armatura leggera. I frutti più significativi di quel suo riavvicinamento alla tramontante dinastia degli Sforza arrivarono tuttavia soprattutto dopo la fine della seconda dominazione francese. Negli anni di Francesco II Sforza (1521-1535), infatti, Giovanni Federico Bossi godette decisamente dei favori ducali e nel 1533 venne tra l’altro investito del feudo di Meleti nel Lodigiano (feudo che era peraltro già appartenuto, sin dalla metà del Quattrocento, ad altri rami della stessa famiglia Bossi).
Anche la vicenda di Ippolita, nata tra il 1505-10 ed il 1515-20, fu notevolmente condizionata da questi stretti rapporti tra il padre e l’ultimo duca Sforza. Infatti nel luglio del 1532, Giovanni Federico Bossi – con l’esplicito consenso del principe – combinò le nozze della figlia con Girolamo di Francesco Rozzoni, segretario ducale e nipote di quel Bartolomeo Rozzoni che fu figura di spicco nella cancelleria sforzesca dall’età di Ludovico il Moro a quella di Francesco II.
Ippolita e Girolamo rimasero sposati per 23 anni, ma il loro matrimonio fu senza prole; anche se a partire per lo meno dal 1543 la coppia aveva accolto presso di sé una nipote: Angela Costanza Bossi, figlia di primo letto della sorella di Ippolita (e cioè Antonia) e di un Giovanni Nicola Bossi.
Poi, nel novembre del 1555 Girolamo Rozzoni – che dopo essere stato segretario imperiale era divenuto anche decurione della città, nonché deputato del Consorzio della Misericordia – venne a mancare.
Ippolita, rimasta vedova, sopravvisse allo sposo per altri 8 anni, durante i quali condusse una decorosa ed agiata esistenza, nel tipico stile di una ricca ed austera dama dell’aristocrazia milanese della prima età spagnola.
Essa era del resto subentrata al marito come usufruttuaria dei suoi beni; e sin dal marzo del 1556 si era anche fatta rilasciare dal Senato un diploma che le accordava la facoltà di operare liberamente contratti ed alienazioni indipendentemente da altri parenti. Le notizie che abbiamo su di lei relativamente al periodo vedovile ci mostrano un’Ippolita vicina ai suoi molti congiunti; ma soprattutto ce la mostrano intenta a coltivare un intenso rapporto spirituale con il convento di Santa Maria degli Angeli dei frati francescani osservanti.
Era questo un legame che Ippolita doveva in realtà aver approfondito già da diverso tempo, come prova tra l’altro il fatto che sin dagli anni Quaranta essa si era prodigata per acquisire il pieno controllo, nella vecchia chiesa conventuale, di una cappella di giuspatronato intitolata a San Bonaventura, che era stata fondata dalla famiglia materna degli Alciati. Sin dal 1547, infatti, Ippolita aveva rilevato le quote di quella cappella di pertinenza della sorella Antonia e così pure quelle del cugino Ambrogio Aliprandi e del nipote Niccolò Arcimboldi (quest’ultimo era in particolare il figlio di Isabella Alciati, che era poi una sorella uterina di Ippolita, nata dal primo matrimonio della madre di lei Costanza di Dionisio Alciati con Cristoforo di Ambrogio Alciati).
L’intento che dovette spingere Ippolita a questa concentrazione di quote ereditarie sulla cappella di San Bonaventura era evidentemente quello di poter disporre di un dignitoso sepolcro per sé e per il marito, ma questi sforzi parvero in realtà vanificati quando nel 1551 il vecchio convento dei Francescani venne fatto demolire dal governatore imperiale Ferrante Gonzaga, per consentire la realizzazione della nuova cinta muraria della città.
Ippolita non si lasciò tuttavia scoraggiare da questi eventi e nei primi anni Sessanta fondò una nuova cappella nella ricostruita chiesa di Santa Maria degli Angeli (nell’attuale via Moscova) e la fece in questo caso intitolare a San Girolamo.
Nel giugno del 1562 essa dettò quindi le sue ultime volontà. Istituì dunque dei legati a favore della nipote Angela Costanza Bossi (che si era frattanto sposata con il giureconsulto Giovanni Angelo Bossi) e così pure in favore degli altri nipoti Princivalle, Isabella ed Ippolita Sicco Borella (queste ultime due erano monache), i quali erano tutti e tre nati dal secondo matrimonio della sorella Antonia (nel frattempo defunta) con Francesco Sicco Borella. Erede universale fu invece istituito il Consorzio della Misericordia.
Ippolita Bossi morì un anno dopo aver testato, il 13 agosto del 1563. Fu sepolta assieme al marito nella cappella di San Girolamo in Santa Maria degli Angeli: cappella che non era in realtà ancora ultimata; costruzione e decorazione, cui negli anni Settanta collaborò anche Ottavio Semini, furono comunque portate a termine a spese della Misericordia.
Da Ippolita il luogo pio aveva del resto ereditato un ricco patrimonio comprendente beni per più di 2000 pertiche milanesi distribuiti fra Olgiate Olona, Solbiate Olona, Robecco, Precotto (ove sorgeva una chiesa rurale dedicata a San Michele, cui Ippolita destinò significativi legati, che le permisero poi di assurgere alla dignità di parrocchia nel 1596); e ancora a Santo Stefano (in pieve di Corbetta), Ponzana Novarese ed altrove. Quei beni (concentrati soprattutto a Treviglio e a Vimercate), che erano invece appartenuti a Girolamo Rozzoni e di cui Ippolita aveva conservato soltanto l’usufrutto a vita, tornarono per contro nella famiglia Rozzoni, trasmettendosi nella discendenza maschile laterale. Nel corso del Settecento anch’essi sarebbero peraltro pervenuti al Consorzio della Misericordia.

(da Il tesoro dei poveri, p. 92-93, testo di Francesco Somaini)