Antonio Lainate (1812 – 1879)

Giosuè Argenti, Ritratto di Antonio Lainate, 1880-1881

Il 18 ottobre 1879, la scomparsa a Pavia, nella casa di corso Garibaldi, del dottore fisico, ovvero medico, Antonio Lainate (o Lainati, come appare a volte scritto) lasciava in città viva costernazione, almeno stando al toccante articolo che il giornale cittadino del 21 gli dedicava e in cui si sottolineavano sia il suo amore per le arti – a lui, infatti, si doveva l’istituzione di una scuola di canto e di una di clarino – sia la sua disponibilità e generosità verso i bisognosi. Elencandone infatti le qualità “schietto, leale, d’indole mite, dolcissimo”, si evidenziava come “dotato di mente acuta, abilissimo in tutto che sapesse di amministrazione, poté formarsi un ricco patrimonio” del quale, appunto, aveva fatto quell’uso che “soltanto le anime nobili e generose sanno fare”; una vita, in definitiva, “tutta spesa nel beneficare” il prossimo.
Quando il 21 stesso, nel primo pomeriggio, veniva pubblicato dal notaio pavese Emiliano Ganassini il testamento olografo del nostro, nel quale era nominato esecutore testamentario l’ing. Giovanni Crespi, si aveva la riprova delle qualità dell’uomo: erede universale era infatti la Congregazione di Carità di Milano – pur se non si dimenticavano i numerosi parenti – che avrebbe dovuto costituire un Albergo agricolo a lui intitolato, quella che sarebbe divenuta la Opera pia agricola Lainate, un’istituzione che, come si dirà, avrebbe avuto una vita piuttosto travagliata.
Per delineare la figura del Lainate e l’entità del suo patrimonio non resta, praticamente, che il suo testamento, essendo andata perduta pressoché integralmente, a causa di eventi bellici, la documentazione relativa precedente. Ma è stato possibile, grazie ad un altro testamento che ancora si conserva, dar conto di come egli fosse giunto ad essere l’ultimo erede dei Beccaria, una delle famiglie nobili pavese più antiche e più note: una vicenda che, fra l’altro, permette di capire appieno il testo del necrologio, laddove ne esaltava le doti di amministratore. Si tratta, dunque, del testamento olografo, datato 1 aprile 1849, e di un codicillo aggiunto il giorno successivo, con cui la marchesa Teresa Beccaria, vedova Botta Adorno – altra famiglia nobile pavese fra le più note – e ulteriormente vedova Eottwos, lasciava appunto erede universale, “tanto pei beni mobili, che immobili” il nostro, pregandolo di accettare “come attestato della mia gratitudine per la leale amministrazione a cui attese tanto delle mie sostanze quanto di quelle del defunto mio zio Pietro Martire Beccaria, con altrettanto disinteresse quanto con premura ed integrità a vantaggio alla mia sostanza”. Per meglio valutare tale designazione, occorre precisare che la testatrice aveva tre figlie – Clementina, avuta dal primo marito, sposa del marchese Cusani; e dal secondo, Marianna, maritata Homodei e Margherita, sposata al conte Del Pozzo – che venivano nominate “eredi nella porzione legittima in quella quota che la legge dispone”, e a ciascuna delle quali altresì lasciava, a titolo di prelegato e mediante il codicillo aggiunto, alcuni bellissimi gioielli; e non dimenticava il personale di servizio, il parroco di S. Michele di Pavia e quello di Mezzanino, il genero preferito, Sebastiano Dal Pozzo e i due unici nipoti, figli di questi e di Margherita, per altro sostituta per il caso che il Lainate non potesse o volesse accettare. Infine, pare utile ulteriormente aggiungere che la testatrice dispensava il nostro “dal rendere conto qualsiasi” per l’amministrazione eseguita sino al suo decesso, precisando che si dovessero ritenere “pareggiati e resi” i conti stessi e che, essendo ella stessa stata la “vera amministratrice della mia sostanza ed egli non prestandomi i suoi servigi che come consigliere ed esecutore, non ha e non può avere altro conto da rendere”. Come si può capire, una fiducia assoluta e completa, e tanta riconoscenza.
Prima di elencare quanto il Lainate lasciava alla Congregazione milanese, converrà dire dei legati. La casa pavese, in primo luogo, era per il nipote Ermenegildo – lo stesso nome del nonno – figlio del fratello notaio Giovanni, cui destinava l’usufrutto della medesima, vita naturale durante, riservando tuttavia alcuni locali della stessa alla cameriera, ed altri al domestico, oltre ad una pensione annua per entrambi, vari oggetti e i vestiti; allo stesso nipote, con un codicillo posteriore, era altresì destinato il palco al Teatro Fraschini “1° ordine a sinistra n.7”, con il godimento riservato al padre Giovanni. Al fratello Luigi andavano 600 lire annue, sempre, fin che fosse in vita, mentre agli altri tre fratelli, l’ing. Savino, il dottor Carlo e Giovanni Battista, 1.000 lire una tantum. La stessa somma andava all’ultimo fratello, dottor Gaetano, ma a lui era destinato anche un quadro di valore, nonché le carrozze “e i cavalli di città, con finimenti, fieno e biada e tutti gli oggetti di stalla e rimessa”; alla sorella Rosa, 500 lire all’anno finché la di lei figlia Clelia fosse nubile, e poi, una volta accasata, 300 e alla cognata Matilde, infine, i mobili della sala di ricevimento.
Diversi altri legati di denaro erano previsti per i figli dei domestici, il portinaio, e, soprattutto, i fattori, a uno dei quali erano altresì destinati 2,5 ettari di terra della possessione Venesia; da ultimo, gli amici: al già ricordato Giovanni Crespi, “in compenso dei tanti lavori e servigi prestatimi”, 12.000 lire una tantum, e alla di lui figlia, Carlotta, “quale pegno di stima e simpatia”, 5.000; ad altri, alcuni oggetti preziosi, sempre in segno di “cordiale amicizia” o “per mia memoria”. L’atto si chiudeva, con le disposizioni per i funerali, per i quali si dovevano spendere non oltre 300 lire per i civili e la “tariffa di terza classe” per i religiosi, con distribuzione nel giorno degli stessi di denaro ai poveri del “Casale d’Industria di Pavia” e alle famiglie coloniche dei suoi poderi; e con la preghiera di non erigere alcun monumento al cimitero e di limitare la scritta sulla lapide a questa frase: “Qui giace il dottor Lainate morto…”; nonché e soprattutto, l’atto terminava in un post scriptum con le disposizioni circa il trattamento da riservarsi ai ricoverati dell’erigendo Albergo agricolo Lainate, di cui è ormai giunto il momento di parlare.
La Congregazione di Carità era dunque istituita erede universale ma con l’obbligo di convertire la rendita derivante dai suoi beni “nell’alimentazione di uno stabilimento a beneficio degli agricoltori poveri”, da aprirsi entro cinque anni o, se fosse stato impossibile a causa di vincoli di locazione, non appena essi fossero cessati. I beneficiati avrebbero abitato le case coloniche dei suoi poderi, rimanendo in comunità e coltivando in prima persona la terra, ripartendosi i diversi lavori; avrebbero avuto, oltre al vitto e all’alloggio, “una piccola mercede settimanale, oltre a un piccolo dividendo alla fine d’ogni anno rurale”. Quanto al numero degli stessi, il Lainate dichiarava l’impossibilità di fissarlo a priori: sarebbe dipeso dalla rendita dei terreni; quanto alle altre disposizioni, esse erano minuziosamente previste: dovevano essere contadini nazionali, ultrasettantenni, di tempra sana e robusta, non dediti all’ubriachezza, “di temperamento dolce e tranquillo”; si sarebbero poi preferiti coloro che avessero compiuto il servizio militare e che sapessero leggere e scrivere; infine, avrebbero dovuto portarsi il letto, con la relativa biancheria e il vestiario. Ancora, “una metà circa dei beneficiati” avrebbe potuto essere ammessa con la moglie; queste, sempre che fossero buone massaie, sarebbero state accolte per “attendere alla cucina, alla biancheria, al bucato, alla cura dei maiali, del pollame” e, in genere, di tutto quanto altro “si aspetti dalle donne”: per questi lavori, avrebbero avuto diritto ad una mercede mensile. Per la stesura dello statuto e del regolamento il testatore dava mandato alla Congregazione ma, come si è accennato, nel post scriptum già ricordato inseriva delle puntuali indicazioni circa il vitto. In specie, egli desiderava che essi avessero, nei giorni feriali, a colazione, pane e zuppa con fagioli, o con latte, a loro scelta; a mezzogiorno, “minestra abbondante” e mezzo litro di vino; a cena, pane o polenta con uova, o frittata, insalata o formaggio, o salame, oltre al vino come a pranzo. Nei giorni festivi si sarebbe aggiunto, a mezzogiorno, un pezzo di carne di manzo o di maiale o salame; mentre nelle solennità – Natale, domenica grassa, Pasqua e Festa dello Statuto – il supplemento sarebbe stato di ben tre piatti, due di carne e uno di verdura, e il vino sarebbe stato aumentato ad un litro.
A parte il denaro, i crediti e i mobili, ovviamente detratti i legati di cui si è detto, la parte più consistente dell’eredità era rappresentata da tre possessioni: quella chiamata Orologio, in comune di Travacò Siccomario, appena fuori Pavia oltre il Ticino, di 2.098 pertiche; quella denominata Venesia, in Mezzanino Po, di 540; e quella detta Fogliana, di sole 93 pertiche; tutti luoghi soggetti alle inondazioni ed erosione dei due fiumi, e come si può capire, ben poco salubri.
Tutto ciò fa ben comprendere perché da subito sorgessero gravi perplessità in merito all’effettiva possibilità di dar vita a tale istituzione, e come si pensasse, come prima soluzione, nel 1885, quale sede della stessa, ad un caseggiato annesso alla Pia Casa di Abbiategrasso. Ma neppure questa idea avrebbe avuto attuazione: la continua erosione dei terreni aveva infatti portato ad una rendita appena sufficiente all’adempimento dei legati vitalizi. Cessati nel 1906 tali oneri, non risultava più praticabile la scelta di Abbiategrasso; e troppo costosa si dimostrava l’eventuale costruzione di un apposito edificio, che avrebbe assorbito una parte eccessiva del patrimonio che, al 1913, ammontava a 238.000 lire. Pertanto, con Statuto organico, approvato con D.L. 23 settembre 1915 si giungeva alla scelta di assistere i contadini poveri a domicilio, mediante assegni in denaro, da 200 a 500 lire annue, consentendo loro di vivere nel loro ambiente e secondo le loro abitudini; solo in via straordinaria si sarebbe provveduto al pagamento della retta, fino al massimo di 800 lire, per il ricovero in qualche istituto. Quanto agli assistibili, venivano rispettati i desiderata del testatore: solo veniva eliminato il requisito della buona salute, atteso che non avrebbero dovuto coltivare la terra; ma venivano esclusi coloro che, a causa della loro infermità, già godessero dell’assistenza di altre istituzioni. Con atto 22 agosto 1918 i due poderi più grandi venivano alienati per 315.000 lire, mentre soltanto nel 1990 si sarebbe venduto il terzo più piccolo. Nel 1928 la rendita annua di 34.000 lire era ripartita in 68 sussidi da 500 lire ciascuno ad altrettanti assistiti, tutti della provincia di Pavia; ancora nel 1949, ciascuno dei 65 beneficiati riceveva 1.600 lire, mentre nei decenni successivi il numero via via si andava assottigliando, sino a che, dal 1984, anno di scioglimento degli Enti Comunali di Assistenza, non venivano più effettuati pagamenti.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 235-236, testo di Alberto Liva)