Luigi Manganoni (1812 – 1874)

Emilio Bisi, Ritratto di Luigi Manganoni, 1875
Mayer & Pierson (Parigi), Ritratto fotografico di Luigi Manganoni, 1867
Pierre Louis Pierson, Ritratto fotografico di Luigi Manganoni, 1867

Luigi Marco Gedeone Manganoni, “egregio cittadino, stimato negoziante che promosse l’industria nazionale”, nacque a Besate il 16 agosto 1812 da Gaetano e Rosa Vallè. Primogenito di altre tre figlie, Marianna, Adelaide e Giulia, creò la sua fortuna, come sottolineò Il Pungolo commemorandolo, “grazie alla propria attività e capacità”.
Sin dal gennaio del 1855 infatti aveva fondato e gestito insieme a Carlo Carrera una Società in accomandita, la “Luigi Manganoni e Comp.” con capitale sociale di 430.000 lire austriache, per la fabbricazione ed il commercio di candele steariche, acidi, sali, saponi ed altri prodotti chimici: lo stabilimento della ditta era a Cassina Balsamo, il negozio a Milano in via Bossi 2. L’impresa ebbe un notevole successo ed il Manganoni, prima di cedere l’attività nel marzo del 1873 a Carlo Veratti, aveva accumulato un cospicuo patrimonio mobiliare e immobiliare [oltre 389.000 lire], consistente nel podere “Cassinazza” anche detto “Bruciata” di 658 pertiche situato in Castelletto Mendosio e Vermezzo, crediti capitali verso privati – alcuni dei quali prestati senza interessi –, rendite del debito pubblico e numerose azioni commerciali, tra le quali due azioni della Società del Giardino, una del teatro della Commedia, poi teatro Manzoni, e due azioni della Società milanese di Panificio, fondata nel 1871 da numerosi esponenti della migliore filantropia cittadina – tra i quali Enea Torelli, Carlo Borromeo, Giovanni Visconti Venosta, Giulio Bellinzaghi – per la fabbricazione del pane applicando “quei metodi i quali valgano a migliorarne la qualità e a ridurne il costo”.
Luigi Manganoni morì celibe a Milano il 28 dicembre 1874. Nel suo testamento, datato 24 e 30 novembre 1873, oltre a numerosi legati – 3.000 lire alle sorelle, 6.000 all’asilo infantile di Abbiategrasso, 10.000 al Pio Istituto del Baliatico di Milano e al Pio Istituto dei Ciechi, 4.000 all’Istituto dei Sordo Muti di campagna, 4.000 all’Istituto di Maternità per i bambini lattanti e 150 lire al mese alla sua cameriera Maria Rossi “sempre che […] abbia rotto ogni rapporto col sciellerato suo seduttore Giovanni Gaviraghi, già mio domestico” – nominò erede universale la Congregazione di Carità, “ond’essa col mio patrimonio abbia a istituire una nuova Opera Pia a vantaggio dei fanciulli derelitti per qualsiasi causa”. Il Manganoni richiese inoltre espressamente che il patrimonio da lui lasciato rimanesse “affatto distinto dagli altri enti amministrati dalla stessa Congregazione e sieno separati i conti da presentarsi annualmente all’autorità tutoria”.
Ottenuta l’autorizzazione all’accettazione dell’eredità, l’Opera pia pei Derelitti ed Orfani fu eretta in ente morale il 17 giugno 1875 e ad essa furono aggregati il legato di Giuseppe Greppi e le donazioni di Ercole Parravicini, di Teresa Berra vedova Kramer e dei fratelli Leonino, anch’esse destinate all’assistenza ai derelitti. All’opera pia fu inoltre aggregata una beneficenza di natura diversa: il legato disposto nel 1843 dal banchiere Francesco Mainoni, che era invece destinato all’erogazione di sussidi agli orfani di padre. Il regolamento dell’opera pia, “che divenne il nucleo attorno al quale si raccolse l’attività della Congregazione di Carità a favore dei minori”, venne redatto nel 1880: esso prevedeva l’istituzione, presso la Congregazione di Carità, di un Comitato per i derelitti composto da dodici membri, scelti dall’ente stesso tra i propri delegati di beneficenza. Al Comitato era demandato il compito di verificare lo stato di miserabilità dei fanciulli ammessi al beneficio e la effettiva inesistenza di persone tenute per legge a sussidiarli. Il regolamento sancì inoltre che annualmente venisse eletto un Sottocomitato composto da cinque membri incaricato del collocamento sia in città sia in campagna dei minori e tenuto a vigilare e sorvegliare sulla loro condizione.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 225-226, testo di Antonio Maria Orecchia)