Giovanni Saldarini (1831 – 1903)

Giuseppe Barbaglia, Ritratto di Giovanni Saldarini, 1903
Emilio Magoni, Monumento a Giovanni Saldarini, 1903

Il 26 febbraio 1903, all’età di 72 anni, decedeva a Milano, nella casa di via Circo al n. 8, l’avvocato Giovanni Saldarini, nato a Sesto San Giovanni da Antonio e Caterina Buttarelli.
Al di là degli scarni dati forniti dalla scarsa documentazione rimastaci – poco più del suo testamento – che lo indica come celibe e “pensionato municipale”, non è stato possibile ricostruire, neppure a grandi linee, la figura e la personalità del benefattore che, con testamento olografo 27 marzo 1900 lasciava erede universale la Congregazione di Carità affinché erogasse il reddito del suo patrimonio, che non doveva essere menomato e di cui, appunto, solo i frutti potevano essere annualmente consumati, “a beneficio esclusivo di minorenni orfani o derelitti e di vedove od abbandonate dal marito” che avessero almeno tre figli, minori di dieci anni; un patrimonio che sarebbe risultato, al netto delle spese e dei legati, pari a poco più di 243.000 lire. Né, in particolare, è stato possibile precisare quale ruolo avesse esercitato nell’ambito dell’amministrazione comunale.
Nel testamento, pubblicato dal notaio Giacomo Chiodi, il Saldarini, nominato esecutore testamentario l’amico Luigi Gariglio, al quale, in ricompensa del ‘disturbo’ legava un oggetto, a sua scelta, del proprio mobilio, disponeva soltanto altri due legati: 4.000, una tantum, alla fedele domestica Giuseppina Filipponi e 300 lire, sempre per una sola volta, al portinaio della già menzionata casa di via Circo, un appartamento piuttosto elegante di cinque stanze, che conduceva in locazione; quanto al passivo, non risulta altra voce che quella relativa alle spese di ultima malattia e funerarie, poco meno di 600 lire.
L’asse precipuo dell’eredità era rappresentato da titoli di credito e libretti di deposito che il Saldarini deteneva presso la Banca Popolare di Milano, la Banca Cooperativa Milanese e la Banca Lombarda; non risulta, infatti, che avesse alcun bene immobile e quanto ai mobili, i pochi quadri, tra cui la seicentesca Maddalena, e gli oggetti preziosi, il valore espresso nell’inventario evidenziava un importo di poco più di 1.250 lire. Come si può osservare, una vita, dunque, condotta con austerità e modestia, senza lussi e senza eccessi, con una costante e marcata propensione al risparmio.
Stupisce il fatto che il de cuius non avesse in alcun modo considerato, nel redigere le sue ultime volontà, la sorella Carolina, vedova Ramazzotti, che, per altro, quale presentatrice della nota spese di ultima malattia del fratello alla Congregazione di Carità, si presume che lo avesse adeguatamente assistito; d’altra parte, non emerge alcun indizio circa l’esistenza di una eventuale conflittualità di rapporti, pur se vi è da dire che nulla si sa quanto alle sue condizioni economiche che, se buone, avrebbero potuto evidentemente spingere il fratello ad escluderla, a favore degli orfani e delle vedove. Uno stupore che, per quel poco che si capisce da ciò che ci è rimasto, doveva aver colpito anche l’interessata che, appunto, risulta essersi attivamente concentrata nella ricerca, in specie nelle cassette di sicurezza bancarie, di un altro testamento; atto, che non sarebbe tuttavia mai stato trovato, a conferma della univocità di intenti del nostro benefattore.
Resta da dire che per la Congregazione, che fra l’altro subentrava anche nel contratto di locazione, subaffittando i locali di via Circo, l’eredità Saldarini veniva a costituire un cespite fondamentale per la costituzione della nuova Casa dei Derelitti, resasi necessaria in sostituzione dei non più idonei locali di San Vincenzo e di San Rocco, e fondata, sulla base di più moderni e avanzati criteri di ricovero, di assistenza e, soprattutto, di educazione e di istruzione professionale, nel 1906 nell’allora via Venini. Il patrimonio del nostro benefattore non avrebbe, dunque, potuto avere destinazione più felice e più aderente ai suoi filantropici desideri.

(da Il tesoro dei poveri, p. 265, testo di Alberto Liva)